Stop The Wall in Palestine

Se alzi un muro, pensa a cosa lasci fuori (Italo Calvino 15.10.1923 – 19.09.1985 +)


Borghese: occhio ai fagiani

majakowskij1_fondo-magazine-Copia“Mangia ananas, mastica fagiani
Non ti resta borghese alcun domani”
Vladimir Vladimirovič Majakovskij


Massimo Volume – Vedremo domani … crasi eus a biri

Crasi eus a biri

Crasi eus a biri
Chi fut giustu su momentu
Po serrai is ogus
O isparai in su muntoni

Crasi eus a biri
Su chi oi si nci fuit
Su sensu cuau
De certas sceras assurdas

Crasi eus a isciri
Ndi seu giai siguru
Si agoa at a essi tropu tostada po nosu
Eus a incrupai calancunu

Eus agatai crasi
Su centru e-i sa luxi
Sa rispusta chi no ddui est
S’arrexonu pèrdiu

Crasi eus a isciri
O si dd’eus a imbentai
Po pausai serenus
Inantis de iscurigai

Crasi eus a isciri
Ndi seu giai siguru
Si agoa s’at a fai tropu mali
Eus a podi cundennai calancunu

#*°#*°#*°

Massimo Volume – Il nuotatore (recensione www.ondarock.it)

massimo-volume

Vedremo domani
Se il momento era giusto
Per chiudere gli occhi
O sparare nel mucchio

Domani sapremo
Quello che oggi ci sfugge
Il senso nascosto
Di certe scelte assurde

Domani sapremo
Ne sono quasi sicuro
Se poi sarà troppo dura per noi
Incolperemo qualcuno

Troveremo domani
Il centro e la luce
La risposta che manca
Il discorso perduto

Domani sapremo
O ce lo inventeremo
Per riposare sereni
Prima che cali il buio

Domani sapremo
Ne sono quasi sicuro
Se poi ci farà troppo male
Potremo sempre condannare qualcuno

 

TRACKLIST di tutti i brani


La Grande Marcia del Ritorno del Popolo Palestinese

1224974624Oggi, 30 marzo 2019, in Galilea e nei Territori palestinesi occupati, per il “Giorno della Terra”, la Grande Marcia del Ritorno compie un anno. Il criminale Netanjahu sta schierando lungo il confine i tiratori scelti. Quest’anno come l’anno scorso. La sua campagna elettorale è colorata di rosso, del sangue del popolo palestinese. Un altro anno di genocidio dei palestinesi.

Con la Resistenza Palestinese, per il diritto al ritorno.

Che suonino presto … le lampeggianti campane di libertà!

Even though a cloud’s white curtain in a far-off corner flashed

An’ the hypnotic splattered mist was slowly lifting

Electric light still struck like arrows, fired but for the ones

Condemned to drift or else be kept from drifting

Tolling for the searching ones, on their speechless, seeking trail

For the lonesome-hearted lovers with too personal a tale

An’ for each unharmful, gentle soul misplaced inside a jail

An’ we gazed upon the chimes of freedom flashing.

<

e l’ipnotica nebbia acquiginosa si stava lentamente alzando

lampi elettrici ancora colpivano come dardi lanciati

non per quelli condannati a vagare oppure per quelli impossibilitati a vagare

e suonavano per quelli che cercano sui loro sentieri di ricerca senza parole

per gli amanti con la solitudine nei cuori con una storia troppo personale

e per ogni gentile anima innocua messa ingiustamente dentro una prigione

e vedemmo al di sopra le lampeggianti campane di libertà>>

Chimes Of Freedom – Bob Dylan

 


Ur è a casa, nella terra del ballo tondo

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Rientrare dopo tanto girovagare gli dà una forza inspiegabile. Una sensazione magica nel turbinio di ricordi e sensazioni. Ha dovuto affrontare mille difficoltà e pericoli.
Nella sua casa c’è arrivato a piedi, è una mattina di primavera, gli alberi pieni di gemme che pare sorridano al tuo passaggio. Il pergolato avrebbe bisogno di una potatura, i tralci sono cresciuti e per troppo tempo disordinati, con le punte che cercano di infilarsi sotto le tegole minacciandone la stabilità. Ancora non si è diradata la nebbia. Dopo tutte quelle inaspettate giornate di pioggia la terra, riscaldatasi coi mattutini raggi di sole, esalta il suo profumo, quasi dimenticato; le goccioline di rugiada che scendono dall’albicocco, quello che piantò prima di partire, sembrano lacrime di commozione, o di emozione, al suo passaggio. Che l’abbia riconosciuto? credo di si. La natura ricorda. Anche lui ricorda. Di quando la nonna intrecciava l’asfodelo con quel profumo particolare. Immersa nella nuvola di silenzi e di concentrazione. Ricorda quando andava col padre a raccogliere l’asfodelo in piccole fascine, caricate nel bagagliaio ed al rientro messe a rinsecchire. Nel lavoro di intreccio di volta in volta la nonna immergeva le stecche d’asfodelo nelle bacinelle d’acqua per rivitalizzarle e renderle morbide e flessibili per il lavoro. Tutti quei passi, fianco a fianco col padre, in campagna, a ricercare le zone migliori laddove l’asfodelo cresceva rigoglioso e verde. Ora è all’ingresso della casa. Quella della sua infanzia. Ha attraversato l’arco del cortile. Fuori i pezzi di quella macina del grano azionata dall’asinello con cui, da ragazzo, si divertiva a spronare nella corsa degli asinelli che si svolgeva d’estate. La casa, piuttosto modesta ha giusto tre stanze, una con la cucina e il forno, una la camera da letto dei genitori, l’altra dove dormivano lui e i fratelli. Dentro, ormai, non c’è più nessuno. I suoi genitori, trapassati a vita migliore, i fratelli trasferiti in nuove dimore, al passo coi tempi, con tutti i confort. Certo che, dopo tanti anni, non lo aspettano più, non sanno se è vivo e dove si trovi. Preferiscono ricordarlo come quando era ragazzo, coi suoi silenzi ma anche con i suoi scatti di umore improvvisi dove raccontava e fantasticava sul suo futuro.
E’ facile rilassarsi. All’ingresso quasi inciampava nel gradino di granito rosa, proprio in quel punto in cui, molti anni prima, era caduta una damigiana piena di vino scheggiando l’angolo centrale d’ingresso. Tutto quel vino perduto sembrò, allora, un brutto presagio. Ma presto tutti impararono ad evitare quel piccolo solco che ti faceva inciampare. La casa è quella che viene considerata “zona d’ombra”, irragiungibile coi normali mezzi di trasporto ma anche dalle onde elettromagnetice. Il suo cellulare, simbolo di un progresso che fa incontrare, che avvicina, ma che ti controlla. E lui non può, per ora, essere controllato. Deve di nuovo sparire. Dove sicuramente non verranno a cercarlo. Tanto di là, puoi capire, non ci abita più nessuno. Lui l’ha subito immaginata come un formidabile riparo contro le intemperie ma anche da chi lo vorrebbe eliminare. Per ora passerà giusto qualche giorno. Il tempo è clemente e, anche se la casa si trova in montagna, abbastanza confortevole coi suoi muri di granito che danno freschezza anche nelle giornate calde. Lontano si sente lo scampanio di un gregge. Nell’angolo opposto all’ingresso della camera da letto dei genitori una vecchia cassapanca. Dopo una esitazione iniziale la apre. Dentro ritrova la giacca di velluto nera a coste fini del padre. Legge la marca, Velluto Visconti. La infila lentamente. Gli cala a pennello. Nella manica sinistra un bottone quasi staccato da cui  penzolano due o tre centimetri di filo nero. Nelle tasche trova un pezzetto di carta ingiallita dove sono stati annotati il numero dei litri di latte del mese di aprile senza l’indicazione dell’anno. Nel foglietto alcune strofe di un sonetto che il padre cantava spesso con piacere e con trasporto emotivo. Una foto color seppia di quando andò alla visita di leva. Una raffica di vento lo desta dai suoi pensieri. Un rumore alle sue spalle, la finestra, dimenticata aperta, si schianta contro la parete, mandando in frantumi il vetro ingiallito. Restano alcune ragnatele, appese, dondolanti, e una parte del vetro. Lo sguardo, veloce, nel silenzio circostante, corre ad osservare come da terra verso il soffitto si levi  una processione di formiche, terminando verso la fessura della trave; ad un palmo dalla fessura un calabrone ha deciso di viverci turbinando nell’aria circostante col suo ronzio. Quella processione festante delle formiche gli ricorda la festa di Sant’Isidoro patrono dei contadini, lui alla guida del giogo di buoi di razza modicana abbellito da fiori e rose infilati nelle corna. Di nuovo osserva la finestra, che si muove leggermente avanti  e indietro col cigolio delle bandelle arrugginite, senza cedere alla tentazione di affacciarsi. Chiude lentamente lo scurino, domani ci penserà. Se sarà ancora lì.

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Il vetro rotto
di Umberto Saba

Tutto si muove contro te. Il mal tempo,
le luci che si spengono, la vecchia
casa scossa a una raffica e a te cara
per il male sofferto, le speranze
deluse, qualche bene in lei goduto.
Ti pare il sopravvivere di un rifiuto
d’obbedienza alle cose.
E nello schianto
del vetro alla finestra è la condanna.

Questo post fa parte di un gioco di scrittura tra blogger, su parole scelte a turno dai partecipanti, organizzato su Verba Ludica.

 


Adiosu Paolo Pillonca

Adiosu Pàulu Pillonca mastru de versos e de iscrituras … “como pasa e iscurta
sas boghes de su ‘entu”

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Album “Tumbu” [1995]- Testo di Paolo Pillonca – Musica di Piero Marras
 TRUMAS
“Una frunza ‘e murta
ti ponzo pro ammentu
como pasa e iscurta
sas boghes de su ‘entu
Cando no t’an a a lughere
sole, luna e isteddos
issas ti ch‘an a jughere
sos rànchidos faeddos.”
Sas animas de totu sos mortores
las truvan sos diàulos a trumas
sos prinzipales cun sos traitores
suta sa temporada paren grumas
Parizzos, in dilliriu
de ‘ochire s’anzone,
los tenia a inghiriu
che canes a murone
it’est chi lis at rendidu
a mi muzare s’ala?
Totu sos chi m’an bendidu
an tentu sorte mala
Sas animas de totu sos mortores
las truvan sos diàulos a trumas
sos prinzipales cun sos traitores
suta sa temporada paren grumas


Sono Ur, vengo dalla terra del ballo tondo (seconda parte).

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Ho camminato per giorni e giorni, soprattutto la notte, ed ora sono sicuro di aver allontanato il pericolo corso in “Strade senza nome”. Ho cambiato i vestiti e nessuno dovrebbe essere in grado di capire da dove vengo e chi sono. Ho tolto un paio di anfibi e una giubba militare a chi, ormai, non servono più. Il sole ha fatto il resto, il mio viso è talmente scuro che potrei essere scambiato per un magrebino o un siriano. La barba incolta farà il resto.

Anche oggi una moltitudine di diseredati. Un caldo infernale. Sotto il sole a picco senza manco una pianta a darci un fazzoletto d’ombra. Giusto qualche rudere di case. A peggiorare le cose ci si è messo pure quel micidiale shuruq, quel vento che ti secca la gola, che alcuni paesi chiamano ghibli. Quel bollente scirocco che nella mia terra chiamano “bentu éstiu”. In genere porta pioggia, che sporca le macchine, le cose, il paesaggio, con quella pattina di terriccio. Ma tant’è. Mi devo abituare. Se sono fortunato riuscirò a passare il confine in poco tempo.

In questa terra di nessuno, la pioggia, dopo l’acquazzone di ieri notte, per tanto tempo ce la dovremo scordare. Ora siamo quì, ad urlare e inveire contro le guardie. Giusto per tenere alta la tensione e per imbrogliare il tempo. Quel maledetto reticolato non è una barriera insormontabile o irresistibile. Occorre attendere, pazientare. In genere dopo alcune ore i militari di guardia rallentano la sorveglianza. Dappertutto fanno così. E qualcuno a volte riesce a saltare e scappare. Oggi no. Hanno una certa strafottenza. Ci insultano nella loro lingua ma non c’è volontà di sparare.

A Melilla, ricordo, invece, che ci provammo in centinaia, sotto il sole. Cercando di passare quel maledetto confine. Giorni e giorni a provare. Poi l’assalto, in tanti, disperati. Sognando quell’Europa maledetta. A pochi passi. Momenti concitati, le urla, gli spari. Molti di noi ammazzati come cani. Poi più nulla. Il silenzio e la fuga.

Devo aver dormito per alcune ore. Forse sono svenuto. Prati verdi, tanti ciuffi di asfodelo con cui mia nonna faceva i cestini. Io, da bambino con una foglia di corbezzolo usata come un cucchiaino per assaggiare la schiuma del latte appena munto. Mio padre che fa il formaggio raffermando lentamente la caseina nel fondo della caldaia, da tagliare a fette e mettere nelle forme per poi adagiare il formaggio nella salamoia.  Lo scampanio delle pecore. Il profumo di timo, base di quella mistura che in Palestina chiamano zahatar.

Ricordo queste cose e sento i profumi e gli odori. Il gusto semplice delle cose accadute. A volte è come se vivessi degli incubi, ma sono accadute. Ho passato diverse frontiere. Scappando. In eterno trasmigrare. Sfuggendo alla cattura. Ho avuto diverse identità. Mi sono persino finto sordomuto, in una delle diverse rotte balcaniche dove l’obiettivo è sempre lo stesso: Europa.

Quella volta, ricordo, camminammo a centinaia seguendo la ferrovia, per chilometri. Arrivati a quella che doveva essere, un tempo, una stazione molto trafficata, dove la ruggine regnava fra i rottami e le sterpaglie e un vento gelido. Di fronte quel maledetto reticolato, a pochi passi un paletto con sopra un cartello segnaletico con scritto “confine invalicabile”, in diverse lingue. Lo stesso cartello attaccato a distanze regolari nella rete. Le guardie e i cani già pronti dall’altra parte. Con un incedere lento il nostro gruppo multicolore di diseredati della terra cercava di guadagnare posizioni comode. Stranamente molta solidarietà. Ma è così fra chi è accomunato dallo stesso destino. Ci scambiavano poche parole, alcune accompagnate da gesti. Qualcuno apriva le bisacce per offrire quel poco che ancora aveva. L’attesa anche lì prima dell’assalto (al cielo) doveva essere lunga, impossibile capire i tempi, quindi meglio organizzarsi. In sottofondo la musica di un violino con una nenia che ricordava quelle melodie ripetitive che mi è capitato di sentire nei metrò, di una delle tante metropoli mitteleuropee, quando ero facoltoso. Già, ma questo l’ho già detto. Una donna che faceva parte del gruppo più compatto con un abito lungo e un hijab viola lentamente si avvicinò per offrirmi un pezzetto di dolce, dal gusto mi sembrava kunafa, un dolce con pasta phyllo, pistacci, sciroppo e crema; cercando di spiegarsi con frammenti di parole in inglese doveva essere quello ma da anni non lo assaggiavo.

Un rumore forte, forse un esplosione, spari. Qualcuno cercava di forzare la rete. Nella confusione alcuni gruppi premevano contro la rete, altri cercavano di tagliarla con tenaglie rudimentali. Le guardie che accorrevano in quel punto lasciavano sguarnito un tratto lungo della rete. In diversi punti si aprirono dei varchi. Nel frattempo reporters internazionali, spuntati dal nulla, ma era chiaro che dovevano essere da tempo fra di noi, stavano riprendendo tutto. Uno di questi incrociò il mio sguardo. Mi conosceva. Si vedeva da quel sorriso beffardo.

Scappare da quella situazione non è stato difficile. Ora sono a bordo di un pick-up, stipato con altri dieci. alla nostra destra una vecchia fabbrica di mattoni, alle finestre panni e stracci stesi. Nelle crepe del muro si intravedono sguardi perduti di bambini. Davanti polvere, deserto e distruzione. Non ho ben capito dove vogliono portarci. Chissà.

Questo post fa parte di un gioco di scrittura tra blogger, su parole scelte a turno dai partecipanti, organizzato su Verba Ludica

Sono Ur, vengo dalla terra del ballo tondo

 


Sono Ur, vengo dalla terra del ballo tondo

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Quella parte del mondo non l’aveva mai vista nonostante il suo continuo peregrinare e scappare. Come un animale braccato era sempre in fuga al punto che non ricordava il motivo principale. Anzi i motivi, perché tali e tanti erano quelli che lo avevano inguaiato. Per buona parte della sua esistenza aveva partecipato volentieri alle feste comandate della sua comunità. L’ultima di cui il ricordo si era sbiadito, al punto da non ricordare se non pochi particolari, era la festa dell’epifania, che a casa sua preferivano chiamare la festa della befana, con tutti quei riti paesani che si tramandavano da molte generazioni. Quasi per gioco, dopo gli studi, iniziò una attività che gli aveva consentito una vita agiata, nel lusso. Ma non durò molto. Il suo socio, che si occupava della contabilità, lo mise in mezzo ad una montagna di guai. Il socio scappò senza lasciare traccia con un buco societario spaventoso da cui scaturirono risvolti penali. Questo aspetto si che lo preoccupava. Il fatto di non avere più nulla era il meno. Dunque con le poche banconote rimaste prese un biglietto aereo per sbarcare in uno di questi posti balcanici dove era sicuro di non essere rintracciabile. Aveva dovuto lottare per restare vivo. Ora era un altro che non esitava ad usare la violenza o ammazzare per non soccombere. I luoghi dove era stato li aveva dimenticati con tutte le persone conosciute, incontrate, perchè non doveva legarsi a niente. In attesa che il mondo si dimenticasse di lui. Lì, c’era arrivato quasi per caso. Dopo essere scampato ad una aggressione in un locale malfamato, tutti pronti a squartarlo per impadronirsi del suo orologio, ultimo orpello dei periodi più fulgidi della sua vita. C’era arrivato di notte. Una notte con la luna ormai calante da giorni, che illuminava, a tratti, quella parte di terra, perchè disturbata dalle nuvole, che minacciavano un temporale. Da lontano si vedeva un pezzo di collina sventrata, si distinguevano baracche, pezzi di muro di quella che doveva essere una residenza signorile, con muri di cinta, archi di tipo coloniale, un pozzo, recinti per cavalli, uno per la doma, altri edifici bassi per il ricovero degli animali. Tutto intorno, attaccate, ammassate, baracche, tende, ricoveri provvisori ricavati con teli di plastica e stracci. Più si avvicinava e più distingueva le persone che vi abitavano, o meglio si rifugiavano, coi visi illuminati dai fuochi accesi con materiali vari. Le lingue parlate incomprensibili, intorno ai fuochi, sentiva questi idiomi, diversi fra loro, di queste persone che si aiutavano anche a gesti per comunicare. Un odore acre di questi fuochi lo investirono giunto a pochi passi. Ma già da li intravedeva l’altra parte della collina, con un brulichio di disperati di diverse etnie, genti che scappavano e che proprio perchè quella terra di nessuno rappresentava il confine fra diversi Stati in guerra li aveva accolti, o raccolti; nelle loro intenzioni doveva essere una tappa momentanea, transitoria, per andare là dove c’era il sole, migliori condizioni di vita, la dignità umana. Intanto restavano intrappolati fra i reticolati che segnavano il punto invalicabile, pattugliato da soldati che non esitavano a sparare chi cercava di superarli. Iniziò a gironzolare fra le baracche alla ricerca di un telo di plastica o di qualcosa che lo avrebbe riparato dalla pioggia imminente. Quelli, tanti, che incontrava non si curavano di lui. Troppo impegnati a sopravvivere. Nel punto più riparato, dentro quello che era, forse, prima di essere bombardato, il loggiato della villa signorile, rimasto miracolosamente intatto, che si reggeva, fra un muro lesionato ed alcune travi del pezzo di casa distrutta, sentì alcuni parlare fra di loro, stette alcuni minuti in ascolto. Una voce l’aveva riconosciuta, quella inflessione dialettale era inconfondibile. Diceva che, avrebbero dovuto lasciare il posto, che chiamavano “Strade senza nome”, dove a quanto pare ci erano arrivati da qualche giorno. Era riuscito a carpire, sebbene fosse ad una certa distanza, che parlavano di un tale che cercavano e di cui avevano perso le tracce ma che, a quanto pare, era stato visto a pochi chilometri da “Strade senza nome”. La descrizione calzava a pennello. Era lui.

La giornata sembra più luminosa.Il cielo è sgombro di nuvoloni. Ora si trova in mezzo a un gruppo di esagitati che con un frastuono infernale si agitano e insultano le guardie al di là del reticolato, a diversi chilometri da “Strade senza nome”. Gli abiti indosso sono quelli presi ad un moribondo incontrato per strada. Ora si fa chiamare Goran. Che cambierà presto in Ur. Gli ricorda le sue origini della terra “in mezzo al grande mare tondo”, come il ballo.

Questo post fa parte di un gioco di scrittura tra blogger, su parole scelte a turno dai partecipanti, organizzato su Verba Ludica

Sono Ur, vengo dalla terra del ballo tondo (seconda parte).

 


Puzone in su ‘ilu (Bird on the wire)

Puzone in su ‘ilu

Comente inbriagu in cuncordu a mesunotte
Apo chircau a manera mea de èssere lìberu.
Comente erme in s’amu
Comente cadderi in carchi libru antigu e colau
Apo chistiu corriolos meos pro tene.

Si no soe istètiu zustu
Speremus chi as a poder lassare currere
Si no soe istètiu sìncheru
Speremus chi apas a ischire ca no fui nande a tue.

Comente pitzinnu nàschidu mortu
Comente fera cun corru
Apo istrantzau totu sos chi mi cherian sighire.
Ma ti lu zuro in supra ‘e custa canthone
E in supra totu si chi apo faddiu
Ca ap’a donare totu a tibe.

Apo bidu unu pedidore arrumbau a unu fuste de linna
M’at narau “no depes pedire meda”.
E una grassiosa ‘emina incrarada in sa zenna iscura.
A boghes m’at narau “Poite no dimandare de prus?”.

Comente puzone in su ‘ilu
Comente inbriagu in cuncordu a mesunotte
Apo chircau a manera mea de èssere lìberu.

Like a bird on the wire

Leonard Cohen

Like a drunk in a midnight choir
I have tried in my way to be free.
Like a worm on a hook
Like a knight from some old-fashioned book
I have saved all my ribbons for thee.

If I have been unkind
I hope that you can just let it go by
If I have been untrue,
I hope you know it was never to you.

Like a baby stillborn
Like a beast with his horn
I have torn everyone who reached out for me.
But I swear by this song
And by all that I have done wrong
I will make it all up to thee.

I saw a beggar leaning on his wooden crutch,
He said to me, “You must not ask for so much.”
And a pretty woman leaning in her darkened door,
She cried to me, “Hey, why not ask for more?”

Like a bird on the wire
Like a drunk in a midnight choir
I have tried in my way to be free.

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Leonard Norman Cohen (Montréal, 21 settembre 1934Los Angeles, 7 novembre 2016)

R.I.P. Leonard  …  Comente puzone in su ‘ilu


Atonzu in Sardinna

Un haiku solo
Idi d’autunno
Ti salvano il cuore

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